martedì 22 febbraio 2011

Racconto: Catarsi

Ispirato ad A.S. (si ringrazia B.R.)

Sorseggiava avidamente l’ultima sua opera. Nel letto. L’Università di Berlino l’aveva chiamato per quello scritto. Lui lo considerava “il Capolavoro”.
Lo volevano come insegnante: il suo pensiero era così dannatamente nuovo, così meravigliosamente straordinario. Uno spartiacque.
Prese, tronfio, un bicchiere e lo colmò con vino italiano. Ne bevve, re trionfante e novello apostolo.
Lo alzò, consapevole, sul tavolo d’ambra: riluceva del sole di Danzica, dell’antica Persia e dell’alto cremisi delle pietre d’Oriente. Era un dono: nelle ultime settimane, sempre più, diveniva un appartamento principesco, ricco, rosso.

Lungi dall’abbandonarlo, la gioventù gli porgeva i suoi omaggi: fisico asciutto, snello. I ricci gli avvolgevano la fronte, scudo dalla calvizie dei suoi illustri colleghi. Erano passate trentuno primavere ma non la sua, di primavera. Conosceva la filosofia, l’astronomia, l’oratoria e il sesso. “Eros”.
Lo amava. Ed era amato.
Centinaia di donne, aveva accompagnato in una foresta tropicale. Viva e pulsante; non volevano tornare.

Decise di dedicarsi alla lettura del Maestro: dal cassetto in ciliegio estrasse la Critica. Come ogni mattina. Da sette anni. Quell’edizione rilegata, con sigilli in oro, la copertina stampata con caratteri latini. Pagine autorevoli. Una basilica.
Pensava. Non poteva farne a meno, rifletteva sulla logica, le categorie. Trascendentale. (E imprescindibile.)
Stava subendo un ratto: dolcissimo e desiderato, sempre attuale.
Culla e nutrice, quella parola stampata era melodia, riempiva la stanza con un colore raro, pregiato, ricercato, prezioso, caldo. Ah, materna ascesa all’Empireo! Mai ne era sazio; si sentiva trasfigurato, un martire nell’orgasmo, il suo corpo era altrove: l’Ascesi.

Una bestemmia squarcia l’immacolato velo. Stava nuotando in una fonte di acqua cristallina un sorcio putrescente. Il pelo di fogna rilasciava chiazze di merda nera, diabolica.
Riconobbe subito lo stridulo verso: la bestia deforme che soggiornava davanti a lui. Era là, tirava coltellate al “divin Immanuel” con la sua ugola opprimente. Snervante. Sfibrante.
Alzò il tono, come se avesse spiegato le ali: un tacchino, UN TACCHINO, unto e starnazzante. Una violenza esplicita e volgare, rozza. Stava crocifiggendo il Messia. Provò il Golgota.

Portò una mano ai fulgidi capelli e strinse la testa. Chiusi gli occhi, percepì un nuovo “craaaaaa” dal pianerottolo che conduceva all’appartamento. Un anziano tedesco con lacrime di sangue in volto, deriso. Per l’ennesima volta.
Era vibrante, in fremito. Posò sull’arancione il Sacro volume: la mani sconvolte.
Una pantomima fieristica l’accerchiava. La gonna sgualcita, lurida, gli zoccoli logori dalla vecchiaia e quelle orribili mani bucate, dai continui aghi, dalla stoffa cucita insieme, in un mosaico di pochezza contadina che lo sciupava, lo rendeva vecchio, gli privava lo Spirito.
Uno strazio.

S’alzò in piedi, con calma stoica. Nobile. Si diresse alla porta e l’aprì con la destra.
Stava impettita sul pianerottolo, con le caviglie elefantine che gli inglobavano le zampe posteriori. Le volse uno sguardo d’insieme: un manichino obeso, di legno, sudicio. Il divin Immanuel con lacrime di sangue agli occhi. Lo stupro.

S’avvicinò e “lei” lo notò. Biascicò qualcosa di ignorante. Lui stava pulsando.
L’alternanza del sorriso beota della donna e del sangue che sgorgava copioso dal volto del Maestro lo bloccò. Per qualche attimo rimase immobile, assorto: il parossismo era vicino.
Mosse impercettibilmente le dita della mano destra e fece un passo. Il raccapriccio dei rotoli di grasso gli ottundeva le meningi ma mai fu così lucido.

Un attimo. Un singolo attimo e la vecchia cucitrice era rotolata dalla tromba delle scale e giaceva. Ferma. In una chiazza di sporco liquido violastro.
Non vide altro, non gliene importava.
Si sentì lieve.
Un’oasi di libertà e di giustizia.


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