venerdì 18 febbraio 2011
Recensione: Wittgenstein (1993)
Un'ora e dieci di film e una persona da raccontare: Derek Jarman, in un non-luogo vuoto e pieno (anticipando l'innovazione vontrierana di "Dogville") che è al tempo stesso mondo, extramondo (o extraterra) e ipermondo, mette letteralmente in scena la vita del filosofo tedesco Wittgenstein. Dall'infanzia alla morte.
La bandiera sventola "Il Mondo è tutto ciò che accade": proposizione trasmigrata (a remi) in una scenografia disadorna ma carica, povera (quantità) e ricca (peso), che sorge dal buio di uno "studio cinematografico" (in realtà teatro) che, con i tenebrosi sipari della mancata esistenza, copre tutto tranne ciò che è.
Leggerezza, consapevolezza, lucidità istintiva e solitudine giocano a domino con la compagnia (amorosa?), il pensiero, la razionalità e il guadagno, inevitabili in una vita normale.
Riduzione è la parola d'ordine; un atto puramente mentale che non libera e non rende liberi.
La logica non sazia la recherche: mai provato due cocktail insieme?
Provare per credere.
"Tu non vuoi essere perfetto?".
Non è nel lavoro manuale, non è nella campagna rurale, non è nell'amore, eppure ci dev'essere una risposta.
Ecco! La perfezione sta nell'imperfezione, nell'ambiguità, nella normalità: ma perchè fermarsi lì?
Lui ama le domande, e, di stare a terra, proprio non gli va.
D'altro canto ha sempre voluto volare.
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Fantastico, mi hai convinto a vederlo. Attendo con impazienza le recensioni degli altri film di questo geniale regista.
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